Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge riproduce sostanzialmente lo schema del disegno di legge delega di riforma della parte generale del codice penale predisposto dalla Commissione ministeriale presieduta dall'avvocato Giuliano Pisapia.
La riforma del codice penale è da tempo auspicata, come necessaria ed urgente, per adeguare il nostro sistema penale ai princìpi costituzionali e per caratterizzarlo con l'impronta garantista della nostra cultura giuridica, troppo spesso tradita da interventi emergenziali che, non raramente, si sono posti in un'ottica opposta rispetto a quella attesa dalla dottrina e da tutti gli operatori del diritto, oltre che da gran parte delle forze politiche, e indispensabile per dare al nostro Paese una giustizia penale realmente al servizio dei cittadini ed eguale per tutti.
Del resto, se si considera che la Commissione ministeriale sta lavorando per predisporre anche un progetto di riforma della parte speciale del codice, è indispensabile che dal confronto parlamentare emerga l'orientamento del legislatore su rilevanti scelte di parte generale (basti pensare al sistema sanzionatorio) onde evitare che le proposte di parte speciale non siano coerenti con valutazioni e scelte già effettuate in sede parlamentare.
Il fatto che il mondo accademico e gli operatori del diritto si siano da tempo espressi per la non procrastinabilità di un codice penale moderno e pienamente aderente ai princìpi costituzionali e il dato che la riforma del codice penale fosse indicata tra le priorità nei programmi delle due coalizioni che si sono presentate alle ultime elezioni, rafforzano la convinzione della necessità di un confronto parlamentare
Princìpi di codificazione.
Nello svolgimento dei lavori della Commissione è stata prestata particolare attenzione a formulare, soprattutto sui punti più innovativi rispetto al codice vigente, direttive chiare e precise oltre che sufficientemente circostanziate, seguendo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale nell'interpretazione dell'articolo 76 della Costituzione. Si è inoltre ritenuto opportuno far precedere le direttive di delega da alcuni «princìpi di codificazione», tra cui l'affermazione del principio di legalità (da attuare mediante la previsione chiara e determinata di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato, nonché l'indicazione espressa di tutti i presupposti della punibilità), l'esclusione di qualsiasi forma di responsabilità oggettiva (prevedendo «come sole forme di imputazione il dolo e la colpa») e l'indicazione per cui non possono avere rilevanza penale fatti che non «offendono beni giuridici di rilevanza costituzionale».
Compito principale del legislatore penale deve essere, infatti, quello di garantire la salvaguardia dei beni giuridici di rango costituzionale: questo il motivo per cui - pur nella consapevolezza che la nostra Carta costituzionale, nel vincolare il contenuto dei divieti penali al rispetto di altri princìpi esplicitamente dichiarati (libertà, uguaglianza, riserva di legge), non esplicita testualmente il principio di offensività - si è ritenuto, pur con qualche opinione dissenziente, che la protezione dei beni giuridici costituzionalmente rilevanti assurga a scopo ultimo del diritto penale. Se si considera che l'articolo 13 della Costituzione assegna un valore preminente alla «libertà personale» - bene di rango costituzionale sul quale incide la sanzione penale - ne dovrebbe coerentemente conseguire il fatto che la sanzione penale, che incide su tale libertà, sia prevista solo per la tutela di beni che, se pur non di pari grado rispetto al valore sacrificato (la libertà personale), siano almeno dotati di rilievo costituzionale.
L'inserimento, tra i princìpi di codificazione, dell'esclusione di qualsiasi forma di responsabilità oggettiva, deriva dall'interpretazione che la Corte costituzionale ha dato dell'articolo 27, primo comma, della Costituzione, allorché ha chiarito, nella ben nota decisione relativa al problema della scusabilità dell'ignorantia juris,
Principio di legalità.
Unanime è la convinzione che le linee della riforma debbano tendere a realizzare la razionalità, la coerenza, l'efficienza del sistema penale e la consonanza con le regole e i valori della Costituzione. Il conseguimento di tali obiettivi dipende essenzialmente dal principio di legalità, presidio di certezza e garanzia insostituibile della libertà e della dignità della persona, la cui piena attuazione è indispensabile soprattutto in un momento storico nel quale più forte è l'incidenza dei vari fattori di crisi della legalità e della certezza del diritto.
L'essenzialità della funzione garantista del principio di legalità è confermata dalla disposizione contenuta nell'articolo 7, paragrafo 1, della citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e, quindi, inserita nell'ordinamento italiano in una collocazione sovraordinata alle leggi ordinarie, trattandosi di norma derivante da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tale, insuscettibile di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria (Corte costituzionale, sentenza n. 10 del 1993).
L'ambito della riserva di legge deve evidentemente coprire tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato e le sanzioni comminate per la violazione del precetto, nel senso che la predeterminazione legale deve avere per oggetto il fatto, la colpevolezza, le circostanze che aggravano o attenuano la pena, la punibilità nonché i presupposti della punibilità, delle pene, dei casi di conversione, dei criteri di ragguaglio, le conseguenze sanzionatorie e gli altri effetti penali.
Anche il principio di determinatezza è parte integrante del principio di legalità. La Corte costituzionale ha definito la determinatezza come un profilo coessenziale al principio di legalità, che contrassegna un «modo di essere» della legge penale: da essa deriva la necessità che il precetto sia enunciato in termini precisi e univoci così da evitare l'impiego di espressioni linguistiche ambigue, oscure e di valenza polisemantica, che pregiudichino la garanzia della certezza giuridica e permettano al giudice di erodere il limite invalicabile della riserva di legge, aprendo la strada ad
Riserva di codice.
Con tale direttiva si è voluto sottolineare la necessità di fare del codice il testo centrale dell'intero sistema penale, onde porre un freno al continuo inserimento di fattispecie penali in leggi speciali con effetti negativi sia in relazione alla chiarezza che all'effettiva possibilità di conoscenza, da parte dei cittadini, delle condotte penalmente rilevanti. Ciò anche al fine di evitare, per quanto possibile, ulteriori estensioni della legislazione penale che, come già evidenziava, nel lontano 1991, la relazione al progetto Pagliaro, «aveva assunto dimensioni abnormi».
Il principio della «riserva di codice» - pur attenuato dalla necessaria indicazione di prevedere disposizioni penali inserite in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui si riferiscono (ad esempio, normativa sugli stupefacenti, sul contrabbando, sulle armi) - era già stato previsto dall'articolo 3 del progetto Grosso. La Commissione Pagliaro aveva previsto, tra i princìpi di codificazione, che il codice penale dovesse «porsi come testo centrale e punto di riferimento fondamentale dell'intero ordinamento penale, in modo da contrastare il pericolo di decodificazione».
La previsione di una «riserva di codice», che si potrebbe definire «attenuata» in quanto tiene conto della peculiarità del nostro sistema penale, intende rafforzare il principio di legalità allo scopo di superare la crisi di efficienza e di garanzie del diritto penale, nonché di creare i presupposti di un'effettiva possibilità di conoscibilità delle norme penali (principio garantista che ha, nel contempo, un'efficacia deterrente): il codice penale dovrebbe diventare un testo esaustivo e, per quanto possibile, esclusivo dell'intera materia penale, della cui coerenza e sistematicità il legislatore dovrebbe ogni volta farsi carico. Ne verrebbe accresciuta la sua capacità regolatrice, tanto nei confronti dei cittadini quanto dei giudici, con conseguente incremento della certezza e della credibilità del diritto penale e con una riduzione della sua area di intervento, conformemente al suo ruolo di strumento estremo di difesa di beni e diritti fondamentali.
Unanime è stata la condivisione di tali considerazioni da parte dei componenti della Commissione: non sono mancate,
Principio di offensività.
La previsione, a livello di legge ordinaria, di una clausola di necessaria offensività è apparsa non solo opportuna, ma necessaria anche in un sistema penale completamente riformato, che contenga descrizioni pregnanti dei fatti punibili, in termini di chiara, afferrabile lesione o messa in pericolo di beni significativi: ciò sia per rimediare a sempre possibili scarti tra descrizione legale astratta ed offesa concreta, sia per orientare l'interprete nei casi dubbi (articolo 5, comma 1, lettera a).
Il confronto si è sviluppato partendo dall'articolo 4 del progetto Pagliaro, ispirato al principio di offensività quale canone ermeneutico di interpretazione della legge penale. Come si legge nella relazione del progetto del 1999, il principio di offensività costituisce «il baricentro di ogni diritto penale non totalitario, poliziesco, liberticida» e perciò è stato assunto come principio regolatore, informatore del nuovo codice. La finalità di tale principio è duplice: da un lato, di «fondamentale direttrice di politica legislativa» e, dall'altro, di criterio interpretativo delle fattispecie, la cui formulazione deve essere in termini di concreta offensività del bene giuridico (salvo deroghe espresse ammissibili «solo per la prevenzione della lesione di beni primari individuali, collettivi o istituzionali»).
Irrilevanza del fatto.
Partendo da tali considerazioni, e dopo essersi soffermata sul dibattito e sulle proposte dei progetti Grosso e Nordio, la Commissione ha dedicato specifiche sessioni di lavoro all'approfondimento del tema e ai riflessi di una sua esplicita accettazione nel sistema penale, concordando sulla funzione del principio di offensività nel duplice momento della formulazione della fattispecie tipica e della applicazione della norma penale.
Il tema dell'offensività ha portato la Commissione ad un approdo ulteriore. La lettera b) del comma 1 dell'articolo 5 disciplina i casi di scarsa significatività del danno o del pericolo in relazione al tipo di interesse tutelato dalla norma penale. Per i fatti connotati da una marginale offensività, è sembrato opportuno offrire la possibilità al pubblico ministero e al giudice di pervenire a soluzioni di non punibilità, quando la situazione di fatto legittimi e giustifichi la rinuncia all'applicazione della pena (anche in un'ottica di deflazione dei carichi penali). La previsione espressa degli indici fattuali di valutazione - quali la tenuità dell'offesa al bene giuridico e l'occasionalità della condotta - mira a disciplinare razionalmente l'istituto in questione, peraltro già utilizzato, come è emerso nel corso del dibattito, con una certa ampiezza nella prassi giudiziaria in sede di archiviazione al di fuori di qualunque regolamentazione (salvo i casi previsti dal decreto del Presidente
Principio di colpevolezza.
Uno degli elementi qualificanti della proposta di legge delega è costituito dall'attuazione del principio di colpevolezza quale principio desumibile, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 364 del 1988, dall'articolo 27, primo comma, della Costituzione. La Commissione - in piena consonanza con l'opinione, ormai unanime in dottrina, per la quale il principio di colpevolezza costituisce uno dei princìpi fondanti del diritto penale - ha ritenuto che la «colpevolezza» non potesse non assumere, nel nuovo sistema penale, un ruolo garantistico fondamentale, in quanto elimina la possibilità che possa essere perseguita una condotta senza prendere in considerazione la situazione soggettiva in cui si sia trovato l'autore del fatto.
Il principio di colpevolezza esige innanzitutto che non sia punibile chi non abbia violato alcun comando normativo e chi non sia stato nella condizione di poterlo adempiere. Del pari esclude che possano rilevare, ai fini del giudizio di responsabilità penale, elementi della personalità o dell'ambiente di vita che non abbiano attinenza al fatto commesso (e che dunque non concorrano a delineare la cosiddetta «colpevolezza del fatto»). Sul punto è stata del resto tassativa la Corte costituzionale allorché ha precisato che «dal collegamento tra il primo e il terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione» emerge «insieme con la necessaria rimproverabilità soggettiva della violazione normativa, l'illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i valori della convivenza, espressi dalla norma penale».
Efficacia della legge penale nel tempo.
Dopo aver stabilito l'irretroattività delle norme incriminatici e la retroattività della legge penale più favorevole, il progetto prevede un'articolazione delle diverse ipotesi di abolizione di incriminazioni precedenti (nessuno può essere punito per un fatto non più previsto dalla legge come reato; in caso di condanna irrevocabile, ne devono cessare l'esecuzione e gli effetti penali). In caso di modifica di leggi si deve applicare quella in concreto più favorevole, sempre che la sentenza di condanna non sia già passata in giudicato: in tal caso, se la legge successiva prevede una pena di durata minore o di specie meno afflittiva, la pena deve essere rideterminata (articolo 8, comma 1, lettera c).
Altra questione dibattuta è stata quella relativa ai casi di modificazioni «mediate»
Efficacia della legge penale nello spazio.
In relazione all'attuale disciplina della legge penale nello spazio, oltre ad aggiustamenti di ordine terminologico, si sono ritenuti necessari alcuni interventi modificativi in relazione alle seguenti problematiche.
Quella derivante dall'articolo 4, numero 7), lettere a) e b), della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, recepita dall'articolo 18, comma 1, lettera p), della legge 22 aprile 2005, n. 69, secondo la quale la corte d'appello rifiuta la consegna della persona nei confronti della quale è stato emesso un mandato d'arresto europeo «se riguarda reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio; ovvero reati che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione, se la legge italiana non consente l'azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio».
Tale previsione ha imposto la ricerca di un punto di equilibrio tra l'esigenza di dare attuazione al principio di territorialità e quella di estendere l'applicabilità della legge penale italiana anche ai reati commessi al di fuori del proprio territorio relativi a fatti di «criminalità di Stato», a interessi primari e a fenomeni criminali tipicamente transnazionali. L'attuale disciplina (cosiddetto «principio di ubiquità») non è stata condivisa - soprattutto in relazione ai casi di concorso di persone
Il reato.
Dopo ampia discussione, e un doveroso approfondimento di diritto comparato, la Commissione, a stretta maggioranza, ha ritenuto di superare la distinzione tra delitti e contravvenzioni. Il tema è stato affrontato fin dalle prime riunioni: data la delicatezza del tema, e la diversità di opinioni, la decisione è stata rinviata dopo la discussione e l'approvazione delle norme relative all'elemento psicologico, al tentativo e al sistema sanzionatorio.
Nel dibattito sono emerse valide argomentazioni sia a favore che contro il mantenimento dell'attuale dicotomia delitti-contravenzioni. Diversità di opinioni che, come emerge dalle relazioni dei progetti Grosso e Nordio, si erano già manifestate nelle precedenti Commissioni.
La Commissione Grosso aveva optato per il mantenimento dell'attuale distinzione sostanzialmente per le seguenti considerazioni:
a) pericolo di un appesantimento della categoria dei delitti a fronte della
b) persistente validità del modello contravvenzionale in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata);
c) esistenza di contravvenzioni non trasformabili agevolmente in delitti;
d) validità del modello di reato contravvenzionale individuato, in adesione a quanto previsto dal progetto Pagliaro, nei reati relativi a violazione di regole cautelari, in quelli integranti un irregolare esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza e nei fatti di ridotta offensività.
La Commisione Nordio era invece pervenuta, a larga maggioranza, a diversa conclusione. I principali motivi che avevano determinato tale decisione sono stati sostanzialmente tre:
a) residualità del diritto penale: il diritto penale è infatti incompatibile con le fattispecie rappresentative di comportamenti assiologicamente neutri, o comunque di scarsa valenza antisociale;
b) presa d'atto che l'attuale catalogo dei reati contravvenzionali non ubbidisce a ragionevoli criteri di differenziazione rispetto ai delitti: da un lato, infatti, vi sono delitti puniti con la sola pena pecuniaria e, dall'altro, contravvenzioni per cui è prevista la pena detentiva; vi sono delitti perseguibili a querela e contravvenzioni perseguibili d'ufficio. Il che, come si legge nella relazione, «rivela una visione contraddittoria che impone una riduzione ad armonia ed equità»;
c) assoluta ineffettività della sanzione, neutralizzata dall'inevitabile prescrizione, che impone la depenalizzazione dei reati bagattellari quale scelta coerente e doverosa rispetto all'impianto complessivo del progetto di nuovo codice penale.
Sulla base di tali considerazioni, la Commissione Nordio aveva anche iniziato una ricognizione dei reati contravvenzionali «contenuti non solo nel codice, ma nello sterminato ambito delle leggi speciali», proprio al fine di evitare l'abrogazione o la depenalizzazione di condotte che dovevano mantenere una rilevanza penale, ma tenendo conto della decisione, auspicata da più parti, di mirare ad una più coerente riduzione della sanzione penale alle sole violazioni rilevanti in chiave di pericolosità, sia pure in uno stadio anticipato, perseguendo quel cosiddetto «diritto penale minimo» volto ad assicurare efficacia al principio di legalità e maggiore garanzia contro l'arbitrio e l'errore.
La Commissione, come detto, si è confrontata a lungo sulle ragioni che avevano portato i precedenti progetti a scelte diverse. Uno dei motivi addotti a sostegno dell'eliminazione dell'attuale distinzione tra delitti e contravvenzioni, e che si è aggiunta a quelle già evidenziate dalla Commissione Nordio, è stata quella della coerenza con il principio di colpevolezza e con la conseguente necessità di evitare qualsiasi tipo di responsabilità di carattere oggettivo o, come invece spesso avviene per le contravvenzioni, senza una valutazione dell'elemento psicologico del reato. In numerosi interventi, inoltre, è stato rilevato come, alla fine, l'unica distinzione tra delitti e contravvenzioni (non solo di fatto ma anche nell'analisi delle Commissioni che avevano mantenuto l'attuale assetto), si trovi nella «diversa specie delle pene rispettivamente stabilite». Da parte di numerosi commissari si è inoltre osservato, da un lato, come, in presenza di contravvenzioni che hanno un'effettiva e reale funzione preventivo-cautelare per beni particolarmente rilevanti, non sia più procrastinabile la loro trasformazione in «delitti»; e, dall'altro, come, invece, molte delle attuali contravvenzioni debbano essere depenalizzate, con il vantaggio non solo di decongestionare, semplificare e razionalizzare il sistema penale ma anche
Soggetto attivo, condotta, evento e nesso di causalità.
Soggetto attivo può essere sia il titolare di particolari doveri o poteri giuridici specificamente attribuitigli al momento del fatto sia chi, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto tali poteri (articolo 14, comma 1, lettera a), numero 1). L'articolo 14 stabilisce altresì che nessuno possa essere punito per un'azione od omissione prevista dalla legge come reato se non l'abbia posta in essere con coscienza e volontà, salvo i casi di forza maggiore o di costringimento fisico: in tali casi risponde del reato l'autore della violenza (lettera a), numero 3).
La Commissione ha ritenuto di dover prevedere ancora questo primo livello di imputazione soggettiva del fatto, comune al dolo e alla colpa, senza però inserire nel novero dei fattori che escludono la coscienza e la volontà della condotta il caso fortuito, concetto poco preciso e di incerta collocazione sistematica.
Per quanto concerne il nesso di causalità, si è fatto riferimento - per stabilire la regola generale - al concetto di «condizione necessaria», mutuandolo dalla dottrina e dalla giurisprudenza che hanno maggiormente sottolineato, da un lato, la necessità, derivante dal principio di legalità, della ricostruzione del rapporto tra condotta ed evento a leggi scientifiche di copertura e, dall'altro, il fatto che l'evento in questione deve essere quello che si è verificato in concreto, con l'esclusione di ogni livello della cosiddetta «causalità alternativa ipotetica».
La Commissione, anche recependo specifici stimoli dottrinari ribaditi in vari convegni giuridici, tra cui quello di Siracusa, ha ritenuto tuttavia necessario introdurre alcune linee guida relative alla tematica, ulteriore rispetto a quella del rapporto condizionalistico, del nesso di imputazione giuridica tra condotta ed evento. Quando si tratta di assegnare il carattere di tipicità ad una condotta in funzione della causazione dell'evento - e quindi in tutti i reati di evento - il passaggio da compiere deve essere duplice: è necessario innanzitutto ravvisare il rapporto di causalità materiale e, successivamente, valutare se, anche dal punto di vista del diritto, il riscontrato rapporto sussista: ne consegue la necessità di indicare i parametri giuridici attraverso i quali operare la «selezione» e formulare l'imputazione oggettiva. Sul punto il dibattito in Commissione è stato particolarmente acceso, in quanto, da parte di alcuni commissari, si sono sostenute l'inutilità e l'improprietà del riferimento al concetto di «fattore eccezionale» e, da parte di altri, la pertinenza del rischio al tema soggettivo del reato. Si è infine giunti alla formulazione dei numeri 5) e 6) della lettera a) del comma 1 dell'articolo 14, con l'intento di consentire al giudice di operare una valutazione sia della qualità della condotta tenuta (ex ante), sia circa le modalità concrete del riscontrato decorso causale (ex post), nella convinzione che il diritto non possa considerare rilevanti né
Dolo, colpa, colpa grave.
Il ripudio della responsabilità oggettiva, che aveva già trovata ampia convergenza nei più recenti progetti di riforma, ha portato la Commissione a prevedere, quali unici titoli di imputazione soggettiva, il dolo e la colpa, con esclusione di qualsiasi ipotesi di responsabilità preterintenzionale: il che non significa, evidentemente, impunità per condotte che oggi hanno una loro specifica collocazione nel codice (ad esempio, omicidio preterintenzionale), ma significa ricondurre tali condotte al concorso di reati tra il fatto-base doloso e l'ulteriore fatto più grave, imputabile a colpa dell'agente.
Già il progetto Pagliaro, all'articolo 12, prevedeva di «escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole forme di imputazione: il dolo e la colpa». Il progetto Grosso, all'articolo 25, ha inteso stabilire che «la colpevolezza dell'agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale» e che «nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto se non lo ha realizzato con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente previsti dalla legge». L'articolo 19 del progetto Nordio prevede che «nessuno possa essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di reato colposo espressamente previsti dalla legge».
La Commissione ha pressoché unanimemente condiviso le seguenti considerazioni preliminari:
a) che fossero maturi i tempi di una definitiva messa al bando della responsabilità oggettiva, non solo nelle forme espresse, ma anche in quelle «occulte» e, quindi, più insidiose;
b) che, in tale materia, formulazioni contenute in norme definitorie hanno comunque una ridotta capacità di incidenza sugli orientamenti giurisprudenziali;
c) che quanto al dolo andrebbe contrastata l'attuale tendenza giurisprudenziale a svalutare la componente volontaristica del nesso psichico e a privilegiare l'instaurazione di un vorticoso processo di oggettivizzazione e di normativizzazione, che riduce il dolo a componente estremamente malleabile sul piano applicativo e quindi facile terreno di coltura per scorciatoie probatorie, soprattutto nel concorso di persone;
d) che vi sia una tendenza all'appiattimento della colpa specifica sulla responsabilità oggettiva, anche in quanto la giurisprudenza tende a non riscontrare il nesso di imputazione tra condotta ed evento, nonché il grado di esigibilità dell'osservanza della regola cautelare violata; che tale tendenza determina, non raramente, una «trasformazione» della colpa specifica in colpa generica mediante l'impiego di clausole generali a sfondo cautelare, con la rinuncia di fatto al controllo di prevedibilità in concreto dell'evento e con la liquidazione del principio di affidamento sulla base del «convincimento» che questo non può essere invocato da chi viola una regola cautelare;
e) che una vera rivoluzione copernicana si potrebbe attuare solo introducendo una terza tipologia di elemento soggettivo, intermedia tra quelli che oggi chiamiamo dolo e colpa e mutuata dall'esperienza inglese della «reklessness», e incentrata sul carattere sconsiderato della condotta posta in essere dal reo, in modo non dissimile da quanto realizzato in Francia a proposito della «mise en danger»: scelta che porterebbe a distinguere l'area della «volontà del fatto» dall'area della «volontà del (mero) rischio del fatto» e ciascuna di queste due dall'area della «non volontà» dell'uno o dell'altro;
f) che tuttavia tale scelta non è ad oggi realizzabile, sia in quanto la distinzione tra «volontà del fatto» e «volontà del mero rischio del fatto» non sempre è agevole, in quanto comporta per il giudice la difficoltà di spiegare perché chi ha così intensamente voluto il rischio del fatto in realtà non ha voluto il fatto e chi si è rappresentato il fatto in maniera sbiadita
Nella consapevolezza, dunque, che un codice non debba imporre scelte di élite, ma debba limitarsi a registrare cambiamenti sufficientemente maturati nella esperienza giuridica, la Commissione si è mossa sulla linea tradizionale della dicotomia delle forme di imputazione soggettiva: una incentrata sull'effettiva volontà del fatto da parte dell'agente (dolo), l'altra sulla sua non volontà e sulla contemporanea violazione della diligenza esigibile dall'agente nella situazione concreta (colpa).
In ordine alla formulazione scelta per definire il reato doloso, l'allontanamento dalla vigente definizione si misura nella chiarificatrice sostituzione dell'evento, quale oggetto del dolo, con il fatto costitutivo di reato e nella soppressione dell'inciso «secondo l'intenzione», che non può non apparire distonico in un sistema in cui hanno cittadinanza all'interno del modello doloso anche forme non intenzionali (il reato è doloso quando l'agente si rappresenta concretamente e vuole il fatto che lo costituisce - articolo 15, comma 1, lettera a), numero 2).
Tale carattere è ribadito nella definizione che la Commissione, pur nella varietà estrema delle posizioni espresse dai singoli componenti, e dopo un'iniziale propensione a escludere espressamente la possibilità di responsabilità per «dolo eventuale», ha infine deciso di adottare con riguardo al dolo eventuale (articolo 15, comma 1, lettera a), numero 3). In proposito va sottolineato come la rappresentazione del fatto in tal caso debba materializzarsi nei termini dell'alta probabilità e come l'accettazione dello stesso non possa essere dal giudice automaticamente ricavata da tale mero stato intellettivo, imponenendo invece uno sforzo di autonoma ricostruzione da ulteriori elementi indicativi. La previsione di un'attenuante facoltativa consente al giudice di pervenire nei casi limite ad una conclusione tollerabile sul piano della giustizia sostanziale, stemperando la radicalità delle conseguenze di una scelta decisoria che può a volte presentarsi come estremamente problematica (articolo 15, comma 1, lettera a), numero 3).
Un più evidente tratto di innovazione caratterizza la scrittura della norma relativa alla definizione del reato colposo. A parte il richiamo alla non volontà del fatto costitutivo di reato, che conferma la posizione della colpa in un territorio esattamente contrapposto a quello del dolo, la disposizione ha cura di esplicitare i distinti passaggi che devono guidare l'interprete nell'accertamento di tale elemento psicologico, menzionando accanto alla violazione di una regola cautelare la prevedibilità ed evitabilità del fatto commesso, allo scopo di impedire intollerabili sovrapposizioni tra la responsabilità colposa e quella oggettiva. Nel prevedere una rimproverabile corrispondenza tra il fatto verificatosi e quello da evitare, si è espressamente esclusa una responsabilità nei casi in cui l'evento cagionato non rientri tra quelli che la regola cautelare violata mirava specificamente a prevenire (articolo 15, comma 1, lettera a), numero 4): «il reato è colposo quando il fatto che lo costituisce non è voluto dall'agente e questi lo realizzi come conseguenza concretamente prevedibile ed evitabile dell'inosservanza di regole di diligenza, di prudenza o di perizia ovvero di regole cautelari stabilite da leggi, regolamenti, ordini o atti di autonomia privata»).
La novità più rilevante riguarda la previsione della figura della colpa grave, con conseguente abbandono della cosiddetta
Ignoranza ed errore.
La disciplina dell'errore e dell'ignoranza è stata riunita in un unico articolo, calibrato sui possibili oggetti dell'errore o dell'ignoranza (articolo 16). Con il numero 1) della lettera a) del comma 1 si è inteso ribadire, onde evitare diverse interpretazioni, che l'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la responsabilità a titolo di dolo (anche se tale conclusione ben si poteva ricavare dalla stessa definizione di dolo come esplicitata all'articolo 15). Tale proposizione in positivo consente anche di chiarire che non vi può essere responsabilità a titolo di dolo anche nei casi in cui l'errore sul fatto derivi da errore su legge extrapenale. La Commissione ha inteso ribadire con forza che la responsabilità dolosa debba essere esclusa in tutti i casi in cui vi sia errore sul fatto di reato, non solo nei casi in cui l'errata rappresentazione riguardi direttamente dati fattuali, ma anche allorché riguardi qualificazioni normative del fatto stesso.
Quanto alle cause di giustificazione e alle cause soggettive di esclusione della responsabilità, la disciplina introdotta non è dissimile da quella attuale (esplicita o comunque mutuata dal diritto vivente). In particolare il numero 2) della lettera a) del comma 1 dell'articolo 16 prevede che l'erronea supposizione di una causa di giustificazione escluda il dolo anche nel caso in cui derivi da errore su legge diversa da quella penale, ancorché avente ad oggetto qualifiche giuridiche o elementi normativi.
Quanto all'errore sul precetto penale, si è mantenuta la disciplina prevista dall'articolo 5 del codice vigente, come interpretato dalla Corte costituzionale, esplicitandosi i casi di errore scusabile, in linea con le indicazioni contenute nella citata sentenza
Cause oggettive di giustificazione e cause soggettive di esclusione della responsabilità.
Ampia è stata la discussione sull'opportunità di prevedere, nelle direttive di delega, una distinzione tra «cause oggettive di giustificazione» e «cause soggettive di esclusione della responsabilità» (articoli 17 e 18). La Commissione si è espressa unanimemente per la decisione - già presente nei progetti Pagliaro e Nordio - di distinguere le cause di giustificazione (scriminanti) dalle cause soggettive di esclusione della responsabilità (scusanti): ciò anche sulla base dell'elaborazione dottrinale, maturata dopo l'entrata in vigore del codice Rocco, tesa a rimuovere gli aspetti della vigente disciplina che recano un'impronta marcatamente autoritaria nonché della opportunità di ancorare la normativa interna alle prospettive tratte dalle fonti internazionali, dalle più significative esperienze di altri ordinamenti e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
Tale impostazione è fortemente innovativa rispetto alla sistematica dell'attuale codice che finisce con l'inquadrare, nell'ambito della generica categoria delle cause di esclusione della pena, fattispecie assai eterogenee tra di loro, che vanno dalla incapacità di intendere e volere fino alla mera esenzione personale dalla sanzione penale.
La previsione di una categoria autonoma di scusanti si ricollega ad una elaborazione scientifica che ha già dato frutti sufficientemente consolidati, offrendo un coerente inquadramento dogmatico per alcune ipotesi legislativamente previste - come lo stato di necessità cogente e l'esecuzione dell'ordine illegittimo insindacabile - che trovano un plausibile fondamento nel principio di inesigibilità, piuttosto che nei modelli esplicativi (riconducibili ai princìpi dell'interesse prevalente e dell'interesse mancante) posti alla base delle vere e proprie scriminanti.
Mentre le cause di giustificazione escludono l'antigiuridicità intesa come contrasto tra il fatto e l'intero ordinamento giuridico, determinano la non applicabilità di sanzioni e si estendono a tutti i concorrenti, la categoria delle cause soggettive di esclusione della responsabilità fa venir meno esclusivamente la rimproverabilità dell'agente (sottoposto alla pressione di circostanze psicologicamente coartanti che rendono inesigibile un comportamento diverso), lascia integra l'illiceità oggettiva del fatto e l'applicabilità di sanzioni civili e amministrative e opera solo nei confronti della persona il cui processo motivazionale è stato condizionato (e non è quindi estensibile a eventuali altri concorrenti).
Reato tentato.
Le problematiche che si sono poste nel corso del dibattito sono state sostanzialmente quella della definizione del tentativo, del suo ambito di applicazione, della compatibilità tra dolo eventuale e tentativo e del trattamento sanzionatorio. Così come era avvenuto nell'ambito delle precedenti Commissioni, e nel dibattito successivo alla presentazione dei relativi progetti, sono emersi due orientamenti: uno teso a mantenere la vigente formulazione, ancorando quindi il tentativo all'idoneità e alla non equivocità degli atti, seppur accentuandone i profili di materialità, l'altro fondato sul momento dell'esecuzione.
Nel primo senso si era espressa sia la Commissione Pagliaro (articolo 19), che ha definito il tentativo come il fatto di «chi, con l'intenzione o la certezza di cagionare l'evento, compie atti idonei oggettivamente diretti in modo non equivoco a realizzare un delitto» sia la Commissione Nordio (articolo 41), che lo ha definito come il «compimento di atti diretti in modo oggettivamente univoco e idonei alla realizzazione del reato». Nel secondo senso si è indirizzato il progetto Grosso («Chi intraprende l'esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l'azione non si compie o l'evento non si verifica»).
1) qualunque enunciato voglia accogliersi, il problema del tentativo gravita inevitabilmente sulla distinzione tra atti punibili in quanto espressivi di una volizione materializzatasi con determinate forme o modalità e atti non punibili in quanto privi di tale consistenza: il che vale quanto affidarsi alla distinzione fra atti esecutivi e preparatori, la cui carica significativa allude ai medesimi concetti. Problematica che tende ad assumere, quindi, una portata nominalistica: il che rende illusorio pensare - dopo oltre due secoli di sforzi della dottrina penalistica - di poter rinvenire la chiave di volta per una soluzione definitiva;
2) l'espressione «atti idonei e (oggettivamente) univoci» è ormai entrata nel nostro lessico penalistico come sinonimo del tentativo punibile, ma non per questo è accreditabile di contenuti maggiormente garantistici rispetto alla formula incentrata sull'inizio dell'esecuzione. Ove poi voglia ritenersi che l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale abbia proceduto a realizzare una eterogenesi dei fini, ribaltando il significato di quella espressione in modo da mantenerla nel solco di una concezione oggettiva, ciò può valere solo ad accentuare la valenza nominalistica del problema, ma non certo a riabilitare il vigente articolo 56 del codice penale;
3) a livello di diritto comparato è indubbiamente prevalente la formula impostata sul principio di esecuzione: essa, infatti, si rinviene, da un lato, nei codici francese (articolo 121-5), spagnolo (articolo 16) e svizzero (articolo 21) e, dall'altro lato, nei codici tedesco (paragrafo 22), austriaco (paragrafo 15) e portoghese (articolo 22). Posto che non sussistono rilevanti differenze fra ordinamenti che legano il tentativo all'«inizio dell'esecuzione» e ordinamenti legati al fatto di «accingersi immediatamente» all'esecuzione della fattispecie, in una prospettiva di armonizzazione comunitaria deve ritenersi che ogni definizione del tentativo sia destinata a presentare una struttura incentrata sul principio di esecuzione, come tale nettamente divergente dal nostro articolo 56 del codice penale. Non si può del resto negare che i concetti di univocità e idoneità degli atti mantengano una notevole vaghezza dei contorni. Quanto all'univocità, come dimostrato anche dall'evoluzione del pensiero di Carrara e dalle sue oscillazioni tra una percezione di tale concetto come criterio di essenza ovvero solo probatorio, essa soffre di una inevitabile proiezione sull'accadimento concreto e di una altrettanto inevitabile sua valutazione alla luce delle circostanze contingenti (a meno che, ovviamente, non si ritenga univoco solo l'atto che immediatamente precede - o, addirittura, nel quale consiste - la consumazione del reato); onde la sua configurazione oggettiva vale solo a togliere rilievo alla confessione dell'agente, ma non può giungere fino a caratterizzare una qualità oggettiva e immutabile della condotta nel suo grado di prossimità rispetto all'evento (salvo che, con uno slittamento semantico, la si renda equivalente alla natura «esecutiva» della condotta);
4) anche il concetto di idoneità degli atti rimane ben distinto dall'idoneità dell'azione nel suo complesso e attiene ad una adeguatezza, nel senso di potenzialità causale, che può caratterizzare anche atti rientranti nella fase preparatoria del reato.
Tali considerazioni hanno determinato la Commissione a formulare una direttiva di delega per cui è punita, con la pena ridotta da un terzo a due terzi, la condotta di chi, intenzionalmente e mediante atti idonei, intraprenda l'esecuzione di un reato, o si accinga ad intraprenderla con atti che immediatamente la precedono, se
Circostanze del reato.
La dottrina è pressoché unanime nel ritenere che il codice vigente affida al giudice un potere discrezionale eccessivo. Ciò rappresenta il frutto della rinuncia ad una penetrante revisione del profilo sanzionatorio, che ha portato all'approvazione di alcune riforme tese a fornire al giudice strumenti di attenuazione delle pene edittali previste dal codice, proprio in quanto considerate eccessive (reintroduzione delle attenuanti generiche, allargamento dei confini dell'articolo 69 del codice penale, facoltatività della recidiva, aumento dei limiti entro i quali è concedibile la sospensione condizionale della pena). L'aumento dei poteri discrezionali del giudice ha costituito, se si considerano i livelli di pena previsti dal nostro ordinamento penale, una risposta alla «non scelta legislativa» sulla gerarchia dei valori penalmente tutelabili, sulle sanzioni e sulla loro misura.
La Commissione ha ritenuto necessario porsi una serie di obiettivi: orientare il giudice in base alle funzioni della pena affermate dalla Carta costituzionale, assoggettare le scelte ad un effettivo controllo di legittimità e assicurare la certezza del diritto nella commisurazione della pena. Ciò ha portato la Commissione ad interrogarsi sull'idoneità degli attuali criteri fattuali (articolo 133 del codice penale) e sulla necessità di fare ricorso all'indicazione codicistica dei cosiddetti «criteri finalistici», come già previsto da alcuni codici stranieri (ad esempio quelli di Germania, Brasile e Portogallo).
Tenuto conto delle indicazioni provenienti dai lavori delle precedenti Commissioni e dei costanti suggerimenti della dottrina, si sono previsti:
a) una tendenziale diminuzione delle circostanze del reato e la contestuale indicazione espressa delle circostanze medesime;
b) l'adozione di soluzioni che favoriscano la restaurazione di un regime applicativo conforme ai postulati del principio di colpevolezza e di determinatezza della fattispecie circostanziale;
c) la revisione dell'entità degli aumenti e delle diminuzioni per le circostanze comuni;
d) la rivisitazione del sistema vigente di calcolo delle circostanze eterogenee, sottraendo al giudizio di bilanciamento le circostanze ad effetto speciale;
e) un ridimensionamento degli effetti della recidiva, con un aumento di pena obbligatorio per chi, dopo esser stato condannato per un reato doloso, commetta un altro reato doloso della stessa indole nei cinque anni successivi: il non commettere un nuovo reato della stessa indole per cinque anni può, infatti, essere considerato elemento tale da far presumere il ravvedimento del reo e l'adeguatezza della condanna già subita.
Le circostanze sono fondate sulla valorizzazione di aspetti di maggiore o minore disvalore del fatto di reato, in una prospettiva finalistica orientata ad esigenze di retribuzione o di prevenzione generale. In questo senso, si distinguono dagli indici di commisurazione della pena di cui all'articolo 133 del codice penale,
1) esprimere una maggiore o minore intensità dell'offesa rispetto al bene protetto dalla norma incriminatrice;
2) tutelare beni diversi da quelli protetti dalla norma incriminatrice (ad esempio: articoli 61, numeri 2) e 9), 576, primo comma, numero 5) e 625, primo comma, numero 2), del codice penale) in caso di condotte plurioffensive;
3) precisare atteggiamenti psichici o caratteristiche tipiche della personalità dell'offensore che si riflettono sul grado di colpevolezza e sul disvalore complessivo della condotta.
Si è ritenuto che - mantenendo l'obbligatorietà della loro applicazione e collocandole nell'alveo della commisurazione legale della pena - le circostanze possono svolgere ancora oggi un'importante funzione retributiva e generalpreventiva. Tuttavia, anche in considerazione dell'orientamento di parte della dottrina favorevole all'eliminazione delle circostanze - e come punto di equilibrio tra le diverse posizioni (basate su argomentazioni pregevoli) - si è deciso di ridurne il catalogo e di contenere gli spazi di discrezionalità relativi sia all'applicazione delle circostanze sia all'entità degli aumenti o delle diminuzioni di pena.
Si segnala, in particolare, la previsione di nuove circostanze aggravanti comuni (articolo 20, comma 1, lettera b), tra cui «l'aver commesso il fatto per finalità di discriminazione razziale, religiosa, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche, di genere e di orientamento sessuale»; nonché «l'aver commesso il fatto per finalità terroristiche, ovvero per agevolare associazioni di stampo mafioso o associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale».
La Commissione ha condiviso la scelta di eliminare fattispecie circostanziali di dubbio significato (ad esempio l'aver agito per suggestione della folla in tumulto) o di indistinto e indiscriminato valore (aggravante teleologica).
Le circostanze incidono sulla commisurazione legale della pena e non sulla commisurazione giudiziale: si è quindi ritenuto di non prevedere le circostanze indefinite e di subordinare la previsione di tutte le future previsioni circostanziali al vincolo della determinatezza. Ne consegue la preclusione nei confronti delle aggravanti direttamente e scopertamente in contrasto con l'articolo 25, secondo comma, della Costituzione (si pensi alle aggravanti speciali espresse con le formule «nei casi più gravi» e «di rilevante gravità», come ad esempio quelle previste negli articoli 171-bis e 171-octies della legge n. 633 del 1941, in materia di diritto d'autore, o quella per i reati ministeriali data dalla «eccezionale gravità» del fatto prevista dall'articolo 4 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1). Sono situazioni in contrasto con l'inviolabilità del diritto di difesa, nelle quali sono già stati notoriamente ravvisati i margini di una potenziale illegittimità costituzionale dei casi indefiniti di aggravamento della pena.
Per quanto concerne le attenuanti generiche si è ritenuta opportuna, proprio sulla base delle considerazioni sopra accennate, la loro abolizione: la loro indeterminatezza, se non collide con i princìpi costituzionali in tema di previsioni penali sfavorevoli, rappresenta tuttavia un veicolo di discrezionalità (se non di arbitrio) giudiziale, ben poco rispettoso del canone di certezza che pure deve informare la predeterminazione legislativa della cornice edittale e orientare (sia pure con i debiti temperamenti) la commisurazione della pena da parte del giudice. Ne è conseguita la decisione della Commissione di escludere
a) obbligatoria (per garantire a tutti i recidivi eguale trattamento e per rispettare il diritto di difesa attraverso precise garanzie processuali);
b) specifica (in base all'antica convinzione che recidivo sia solo chi ricade in un reato della stessa natura, in quanto solo in presenza di un nuovo reato omogeneo si può ritenere che la pena sofferta si è rivelata insufficiente);
c) temporanea (l'astensione dal delitto per un certo numero di anni depone a favore della sufficienza della pena e del ravvedimento del reo).
La Commissione ha ritenuto di non estendere la recidiva ai reati colposi, attualmente esclusa in virtù della legge n. 251 del 2005. Quanto all'inquadramento sistematico, da cui derivano conseguenze anche rilevanti, la recidiva va considerata una circostanza comune in senso tecnico.
Concorso di reati, concorso formale, reato continuato.
Varie erano le prospettive, quanto meno in via astratta, per disciplinare il concorso di reati: utilizzare il criterio del cumulo materiale, quello del cumulo giuridico, per il quale alla pluralità di reati si applica la pena del reato più grave congruamente aumentata, ovvero quello del cosiddetto «assorbimento», per il quale si applica esclusivamente la pena per il reato più grave.
La Commissione ha ritenute valide le ragioni di ordine sostanziale e comparativo per abbandonare il sistema del cumulo materiale e per conservare le figure del reato continuato e del concorso formale come ipotesi privilegiate rispetto alla disciplina generale del cumulo giuridico. L'unitarietà del fatto punibile, riscontrabile nel «concorso formale» e nel «reato continuato», ha portato la Commissione a prevedere, in tali casi, la pena prevista per il reato in concreto più grave, aumentata fino al doppio (articolo 21, comma 1, lettera b).
Al fine di ricondurre a ragionevolezza la tendenza alla dilatazione della unificazione dei reati, si è ritenuto di ancorare il riferimento alla «risoluzione criminosa unitaria» tenendo conto anche, ma non solo, dell'indole, delle modalità esecutive e
Concorso di persone nel reato.
La priorità che si è posta la Commissione nel disciplinare il concorso di persone nel reato è stata quella di assicurare la definizione del contributo punibile, nel rispetto dei princìpi di determinatezza, tassatività e chiarezza della legge penale. Condiviso è stato anche l'obiettivo di ridurre il tasso di genericità dell'attuale disciplina, da imputare anzitutto alla formulazione dell'articolo 110 del codice penale.
Le direttive approvate intendono anche fornire una risposta all'ulteriore esigenza di adeguare il sistema ai princìpi di colpevolezza e di proporzionalità dell'intervento punitivo. Ne è derivata una disposizione per cui ciascun concorrente deve rispondere del reato nei limiti e in proporzione al contributo materiale e psicologico offerto alla realizzazione del fatto.
Per evitare clausole generiche, non sufficientemente determinate, quale quella dell'attuale articolo 110 del codice penale, si è scelto di individuare nella tipologia del contributo prestato alla realizzazione del fatto il criterio generale che conferisce rilevanza alla condotta concorsuale, specificando che concorre nel reato chi partecipa alla sua deliberazione, preparazione o esecuzione, ovvero chi, determinando o istigando un altro concorrente o prestando un aiuto obiettivamente diretto alla realizzazione medesima, apporta un contributo causale alla realizzazione del fatto (articolo 22, comma 1, lettera a).
La vigente disciplina del concorso di persone lascia configurare forme di responsabilità oggettiva, equiparando contributi radicalmente diversi dal punto di vista dell'elemento psicologico, come avviene nel caso previsto dall'articolo 116 del codice penale. Per questa ragione si è ritenuto di inserire una disposizione volta a consacrare il principio secondo il quale ciascun concorrente risponde nei soli limiti della sua colpevolezza in rapporto al contributo effettivamente prestato (articolo 22, comma 1, lettera e).
Il problema della comunicabilità delle circostanze ai concorrenti è poi stato positivamente risolto facendo riferimento alla struttura delle circostanze, singolarmente considerate. Dal punto vista della valutazione delle cause di giustificazione e delle «esimenti» in senso ampio, sono note le incertezze interpretative concernenti l'attuale articolo 119 del codice penale, alle quali era necessario dare una risposta chiara e soddisfacente. Il criterio di fondo adottato, che ripercorre quello seguito dai precedenti progetti, deve cogliersi nella struttura oggettiva o soggettiva delle singole situazioni considerate.
In linea di principio dovrebbero reputarsi munite di una struttura oggettiva quelle fattispecie di non punibilità che maturano indipendentemente da particolari coefficienti psicologici, risultando perciò anche «oggettivamente» accertabili dal giudice; soggettive quelle che invece presentino tali coefficienti. In quest'ultimo caso, un effetto di «comunicazione» ai concorrenti non sembra adeguato perché lascerebbe valorizzare, a favore di taluni tra i concorrenti, elementi squisitamente personali, appartenenti ad altri, ai quali soltanto si collega l'effetto esonerante previsto dalla legge.
In relazione ai casi di desistenza e recesso - istituti che presuppongono impegnative opzioni di politica penale, concernenti gli strumenti che è utile mettere in campo per assicurare la tutela dei beni, prospettando al destinatario della norma i vantaggi di un ritorno alla legalità - non si è condivisa la soluzione prevista dal codice vigente, che distingue gli effetti della desistenza e del recesso, affidando all'interprete il compito di tracciare, in concreto, la linea di confine (scelta che ha assicurato flessibilità, comportando, per altro verso, carenze di precisione emerse soprattutto in tema di concorso di persone).
Si è quindi scelto di fissare una regola che chiarisca i presupposti e gli effetti della desistenza volontaria. Si è così precisato che non è punibile il concorrente
Imputabilità.
La Commissione è partita dalla constatazione della profonda crisi che ha vissuto il concetto di imputabilità, anche quale riflesso dei controversi rapporti tra giustizia penale e scienze psichiatriche. Ciò essenzialmente in quanto, al profilo normativo del concetto di imputabilità, si aggiunge quello empirico, che rientra nella competenza dello psichiatra e che attiene alla prevedibilità dei comportamenti futuri di chi ha commesso un reato in una situazione di compromessa capacità di intendere e di volere.
Altro problema - che riguarda soprattutto i casi di ubriachezza e di assunzione di sostanze stupefacenti - è quello dell'utilizzo massiccio di fictiones iuris, che costituiscono una deroga espressa alla regola che esige, ai fini della punibilità, la sussistenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto.
Il codice Rocco, in un'ottica legata ad esigenze squisitamente preventive, ha dato vita per tali ipotesi ad un sistema di attribuzione della responsabilità penale sganciato dall'accertamento effettivo delle condizioni personali al momento della realizzazione del fatto (articoli 92 e seguenti del codice penale). Tale disciplina è difficilmente armonizzabile con il principio di personalità della responsabilità penale e, soprattutto, con un diritto penale del fatto. Evidente è, infatti, lo iato tra fatto e colpevolezza, caratteristico dello schema dell'actio libera in causa, tra norma e realtà sottostante, che costringe il legislatore al ricorso a finzioni giuridiche, le quali a loro volta finiscono per collidere irrimediabilmente con il principio di colpevolezza, dando luogo ad ipotesi di responsabilità oggettiva (occulta o mascherata), che in quanto tali vanno rigorosamente bandite dall'ordinamento giuridico.
Sulla base di tali considerazioni, la Commissione ha fatto le seguenti scelte di fondo (articoli 23 e 24):
a) abolizione del sistema del doppio binario, che prevede l'applicazione congiunta di pena e di misura di sicurezza;
b) abolizione delle finzioni di imputabilità, che costituiscono una deroga alla regola che esige, ai fini dell'imputabilità, la sussistenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto;
c) recepimento, quanto al vizio di mente, dei princìpi fissati dalle sezioni unite penali (sentenza n. 9163, Raso, 25 gennaio-8 marzo 2005), con il conseguente abbandono di un rigido modello definitorio dell'infermità in favore di clausole aperte, più idonee ad attribuire (a determinate condizioni) rilevanza anche ai disturbi della personalità;
d) previsione, nei casi di incapacità di intendere e di volere, di misure di cura e di controllo, determinate nel massimo e da applicare in base alla necessità della cura;
e) applicazione, nei casi di ridotta capacità di intendere e di volere, di una pena ridotta da un terzo alla metà finalizzata al superamento delle condizioni che hanno ridotto la capacità dell'agente.
Nel corso della discussione è stato ampiamente condiviso il concetto per cui l'imputabilità è la capacità di colpevolezza e, quindi, è presupposto per la rimproverabilità di un determinato comportamento: capacità di comprendere il significato del proprio comportamento illecito non significa, però, coscienza dell'antigiuridicità del fatto, valutata alla stregua della norma incriminatrice, ma più semplicemente comprensione del suo significato
a) la prima, che ruota sostanzialmente attorno a due princìpi cardine: 1) l'esaltazione del contenuto specialpreventivo dell'istituto della sospensione condizionale della pena. Il beneficio della sospensione della pena sarà infatti subordinato a un percorso terapeutico, disposto dal giudice sulla base di una perizia che abbia valutato positivamente le possibilità di riuscita e di efficacia dell'intervento più idoneo alla rieducazione e al reinserimento sociale del reo; 2) la previsione (per le pene superiori a quelle che possono rientrare nella sospensione condizionale) della liberazione condizionale con effetto estintivo della parte residua di pena da scontare, con riferimento a condannati semi-imputabili - segnatamente soggetti affetti da disturbi della personalità - che già in carcere si siano sottoposti a un programma terapeutico e che abbiano accettato di proseguire tale percorso di recupero anche all'esterno (come misura di sicurezza, che si andrebbe a sostituire - e non ad aggiungere come nell'attuale sistema del doppio binario - alla pena), sempre a patto che sussistano apprezzabili chance di riuscita del trattamento terapeutico;
b) la seconda soluzione, fatta propria dal progetto Grosso, è quella che prevede il ricorso ad una pena (diminuita da un terzo alla metà) caratterizzata in senso decisamente specialpreventivo, che si avvicina - quanto a contenuto e a modalità di esecuzione - alle misure di sicurezza. I punti salienti sono i seguenti: determinazione della pena in funzione del superamento delle condizioni che hanno ridotto la capacità dell'agente, in particolare prevedendo un trattamento terapeutico o riabilitativo; possibile ricorso all'istituto della sospensione condizionale della pena, anche in questo caso subordinata a un trattamento terapeutico o riabilitativo (sulla falsariga di quanto previsto dalla normativa sugli stupefacenti); previsione di accesso a misure alternative qualora non
A larghissima maggioranza la Commissione ha optato per questa seconda soluzione, che pare meglio conciliare le esigenze di sicurezza della collettività e la necessità di trattamento del reo.
Partendo dallo scioglimento del nesso ideologico fra condizione organica e disturbo psicopatologico, la Commissione è stata unanime nella decisione di eliminare la correlazione immediata - retaggio di vecchie teorie organicistiche - tra condizione di sordomutismo e vizio di mente, in quanto non vi è alcun motivo di considerare il sordomutismo, di per sé, come iscrivibile a condizioni di non imputabilità. Conseguentemente non si è prevista una norma quale quella di cui all'articolo 96 del codice Rocco.
A maggioranza la Commissione ha ritenuto di confermare la soglia minima dell'imputabilità ai quattordici anni e la necessità di un accertamento in concreto della capacità (rectius: della maturità) per i minori con età tra i quattordici e i diciotto anni. Nel primo caso resta confermata una presunzione assoluta di incapacità; nel secondo, invece, è demandato al giudice il compito di accertare di volta in volta se il minore al momento in cui ha commesso il fatto aveva la maturità sufficiente per poter comprendere il significato del fatto o comunque per agire secondo tale capacità di valutazione (articolo 23, comma 1, lettera e).
Anche sulla base di tali considerazioni la Commissione ha ritenuto di differenziare la posizione del minore tra i sedici e i diciotto anni e quella del minore tra i quattordici e i sedici anni. Per il minore imputabile che ha compiuto i sedici anni si prevede una diminuzione di un terzo della pena; per il minore imputabile che non ha ancora compiuto i sedici anni la diminuzione potrà essere da un terzo alla metà, lasciando quindi al giudice la possibilità di valutare, in concreto, se sia opportuna o meno una diminuzione più ampia di quella prevista per chi ha superato i sedici anni.
Passando, quindi, alla proposta delle singole misure, si prevedono diversi tipi di «risposte sanzionatorie» per i non imputabili, evidentemente diversificate in considerazione della causa di non imputabilità: 1) quelle di tipo terapeutico per gli infermi di mente; 2) quelle finalizzate alla disintossicazione per i tossicodipendenti o per gli alcolisti; 3) quelle rieducative per i minori (il sistema sanzionatorio per i minori è stato delegato ad altra specifica Commissione). Si è escluso con decisione il ricorso agli ospedali psichiatrici giudiziari, anche in quanto la legge n. 180 del 1978 ha abolito i manicomi e gli ospedali psichiatrici giudiziari altro non sono che manicomi criminali.
Nel corso del dibattito è emersa, in maniera ancora più pressante, la necessità di riforma delle misure per gli alcolisti e i tossicodipendenti, riconosciuti non imputabili, atteso che allo stato l'intossicato cronico (da alcol o da sostanze stupefacenti) è sottoposto alle stesse misure di sicurezza previste per gli infermi di mente: non v'è chi non veda l'assoluta inadeguatezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario per i tossicodipendenti o per gli alcolisti. Occorre, dunque, prevedere nuovi presìdi che salvaguardino le esigenze di cura del singolo, senza tuttavia pregiudicare quelle di tutela della collettività.
Persona offesa dal reato.
La doverosa attenzione alle persone offese dal reato ha permeato tutti i lavori
Querela, istanza e richiesta.
Per quanto concerne la querela, i princìpi approvati seguono le linee di fondo della disciplina vigente, salvo talune innovazioni di rilievo. Si è mantenuto, quale termine per proporre la querela, quello attuale di tre mesi (nella parte speciale si potranno evidentemente prevedere eccezioni, quale quella oggi prevista dall'articolo 609-septies del codice penale in caso di violenza sessuale), ma si stabilisce che tale termine decorra dal giorno in cui l'offeso sia venuto a conoscenza della realizzazione del reato. Si prevede inoltre che, nel caso in cui la persona offesa si trovi in stato di obiettiva soggezione nei confronti dell'autore del reato, il termine decorra dal momento di cessazione di tale stato (articolo 26, comma 1, lettera c). In caso di pluralità di persone offese, il termine decorre, per ciascuno dei soggetti offesi, dal momento in cui la singola parte lesa sia venuta a conoscenza del reato: la querela proposta anche da un solo avente diritto produce tuttavia effetti anche nei
Le pene.
Il sistema sanzionatorio si caratterizza per la diversificazione delle pene rispetto a quanto previsto dal codice vigente. Si è superata, inoltre, la distinzione tra pene principali e pene accessorie.
Le ragioni che hanno portato a tale scelta sono state molteplici e attengono principalmente ai seguenti nodi problematici:
a) l'inefficienza del diritto penale in molti settori, soprattutto quelli non attinenti alla criminalità comune, dipende oggi essenzialmente dall'indisponibilità di strumenti sanzionatori in grado di incidere efficacemente in senso preventivo sugli interessi in gioco. La previsione sistematica della pena edittale carceraria ha comportato, infatti, che le conseguenze sanzionatorie relative a pur gravi condotte pericolose si siano rivelate ampiamente ineffetttive: da una indagine dell'Istituto EURES-Ricerche economiche e sociali è emerso che dal 1995 al 2005 (prima quindi del provvedimento di indulto dell'agosto 2006) sono stati 850.000 gli anni di detenzione inflitti e non scontati. Il rapporto tra anni scontati e anni di reclusione comminati da sentenze passate in giudicato dimostra che l'indice di certezza della pena, vale a dire gli anni effettivamente trascorsi in carcere rispetto a quelli inflitti, ha toccato nel 2001 la punta più bassa (38,4 per cento) e nel 1995 la punta più alta (44,9 per cento). Una gamma diversificata delle pene consente di evitare modalità sanzionatorie che finiscono con l'essere troppo spesso solo simboliche e di fornire strumenti, di prevenzione e di punizione, estremamente efficaci anche rispetto a reati economico-finanziari, ambientali, colposi eccetera;
b) le pene non detentive consentono di valorizzare l'esigenza che siano annullati i vantaggi derivanti dal reato: esigenza essenziale ai fini della prevenzione e tuttavia fino a oggi non adeguatamente considerata. Sanzioni diverse dal carcere sono altresì particolarmente idonee a fungere da disincentivo rispetto al perseguimento antigiuridico di un interesse economico, nell'ambito degli illeciti commessi per finalità di lucro;
c) la reclusione ha di fatto scarsa efficienza specialpreventiva, come si evince dagli elevati tassi di recidiva nei casi di esecuzione della pena carceraria non mediata da strumenti alternativi di reinserimento sociale: i tassi di recidiva dopo modalità sanzionatorie diverse da quella carceraria risultano di gran lunga inferiori (circa il 70 per cento per chi sconta la pena in carcere; l'11-12 per cento per chi usufruisce di misure alternative alla detenzione). Del pari, i costi economici complessivi dell'applicazione di sanzioni non aventi carattere detentivo risultano molto meno elevati rispetto a quelli del ricorso al carcere;
d) l'introduzione di pene non detentive costituisce una modalità attuativa sostanziale dell'orientamento previsto dall'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, per cui le pene sono chiamate a favorire l'integrazione sociale del condannato e non a realizzare la sua espulsione dal contesto della società: ciò nella consapevolezza che l'orientamento all'integrazione e alla responsabilizzazione non deriva da esigenze umanitarie, ma è un vero e proprio elemento strategico finalizzato alla prevenzione. Nulla come l'avvenuto «recupero» del condannato rafforza l'autorevolezza dei precetti penali e, dunque, la stessa prevenzione generale.
Sulla base di queste premesse - e dell'oggettivo fallimento dell'attuale sistema penale - la Commissione ha pro
a) la pena pecuniaria per tassi (che in molti ordinamenti europei costituisce la sanzione penale più applicata) consente di rendere finalmente disponibile, ove ne sia adeguatamente garantita l'effettività esecutiva, uno strumento tale da poter essere modulato - in termini non desocializzanti - alle effettive condizioni economiche del condannato. La possibilità, che non si è ritenuto di cancellare, di comminare sanzioni pecuniarie per entità determinata consente forme di intervento mirato al valore di determinate operazioni economiche illegali, specie nei casi in cui non siano facilmente eseguibili provvedimenti di confisca;
b) le pene interdittive consentono un intervento molto mirato - senza desocializzazione detentiva e con attenzione a non privare il condannato dei presupposti necessari per la garanzia dei suoi diritti fondamentali nonché per l'assolvimento dei suoi doveri sociali e familiari - sui presupposti specifici di una data condotta criminosa: tale modalità d'intervento si è dimostrata, là dove è stata applicata, particolarmente efficace per assicurare, in settori particolarmente delicati come quelli amministrativo o commerciale, le esigenze fondamentali della prevenzione;
c) le pene prescrittive rappresentano un importante strumento per delineare percorsi comportamentali conformi alle esigenze di salvaguardia dei beni fondamentali e per favorire condotte riparative o conciliative (anche attraverso il lavoro in favore della comunità, la messa alla prova o procedure di mediazione). Rappresentano, inoltre - anche in quanto non ne è prevista la sospensione condizionale - uno strumento fondamentale per evitare il senso di impunità che deriva dalla non effettività della pena e che è spesso il presupposto della recidiva;
d) il ricorso alla detenzione, da prevedere nei termini sopra menzionati, dovrebbe consentire - limitando in maniera stabile la popolazione penitenziaria - interventi tesi alla risocializzazione più credibili e mirati rispetto alla situazione attuale, con un attento monitoraggio della fase del reinserimento sociale e con conseguente rilevante diminuzione della recidiva;
e) la previsione di una pena «di massima durata» non più coincidente con l'ergastolo, ma tale da assicurare una durata assai consistente della detenzione, garantisce dal pericolo della reiterazione di gravi reati e dalla perpetuazione dei legami di appartenenza a organizzazioni criminali, consentendo nel medesimo tempo un pur limitato adeguamento della pena alle caratteristiche del caso concreto, in conformità al principio costituzionale di colpevolezza; del pari, assicura un più facile realizzarsi dello scopo rieducativo richiesto dalla Costituzione, facendo sì che la cessazione della pena - la cui possibilità è stata ritenuta necessaria dalla Corte costituzionale anche in rapporto all'ergastolo - abbia comunque data certa, seppure secondo termini temporali molto rigorosi che non implicano un affievolimento dell'intervento sanzionatorio rispetto alla situazione attuale. Le esigenze di tutela della società sono del resto rafforzate attraverso misure di controllo specificamente previste per il condannato a pena di massima durata che torni in libertà. La previsione di una verifica periodica nel corso dell'esecuzione della pena, che subordina, anche in questo caso, a una specifica serie di giudizi positivi l'accesso nel lungo periodo a misure alternative, rappresenta un significativo rafforzamento del controllo sul percorso effettuato in carcere dal condannato e un importante fattore di stimolo, per il medesimo, alla revisione delle scelte comportamentali,
La Commissione è consapevole dei rilievi che, da più parti, sono stati sollevati in merito alla gamma, ritenuta troppo vasta, delle pene non detentive previste dal progetto. Tali rilievi fanno leva soprattutto sulla difficoltà applicativa del prospettato sistema sanzionatorio e sulla eccessiva discrezionalità che un simile sistema comporterebbe nell'applicazione e nella commisurazione della pena. Ha tuttavia ritenuto, anche in considerazione di commenti favorevoli all'allargamento della gamma sanzionatoria, di mantenere - in questa fase dei lavori - uno spettro ampio di sanzioni non detentive, con l'impegno di un'ulteriore riflessione, anche sulla base delle indicazioni derivanti dal dibattito parlamentare.
La Commissione, a larga maggioranza, non ha previsto la pena dell'ergastolo, sostituita con la «detenzione di massima durata». E ciò pur nella consapevolezza che la decisione sul mantenimento o meno del «fine pena mai» non potrà che essere di carattere innanzitutto politico.
Il confronto su tale tema, particolarmente delicato, è iniziato dalle problematiche relative alla costituzionalità o meno della pena perpetua, soprattutto, ma non solo, in relazione all'articolo 27 della Costituzione, secondo cui «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Una pena «eliminativa», che sopprime per sempre la libertà di una persona escludendola dalla convivenza civile, non può non essere considerata una pena disumana, anche in quanto finisce con il negare anche la dignità individuale. Proprio per questo, ad esempio, in Francia, mentre fu mantenuta dal codice penale del 28 novembre 1791 la pena di morte, fu escluso l'ergastolo, giudicato più intollerabile, e si previde, come sanzione più grave dopo la morte, la pena di ventiquattro anni di ferri.
L'ergastolo, inoltre, pone non pochi dubbi di legittimità costituzionale anche in relazione al principio, parimenti stabilito dall'articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». È infatti evidente che se per «rieducazione» si intendono, secondo l'opinione unanime della dottrina, la risocializzazione e il reinserimento sociale del condannato, l'ergastolo è logicamente incompatibile con la finalità rieducativa della pena.
Né basta ad escludere questa incompatibilità la circostanza che la pena dell'ergastolo, come ha affermato la Corte costituzionale con le sentenze n. 264 del 1964 e n. 274 del 1983, non sempre è perpetua, dato che di fatto possono essere concesse agli ergastolani la grazia e la liberazione condizionale, in quanto la pena perpetua contraddice anche il principio di giurisdizionalità delle pene, il quale esclude pene fisse, non graduabili sulla base di quel momento essenziale della giurisdizione che è la valutazione del caso concreto. È perciò per sua natura una pena iniqua, soprattutto se prevista rigidamente senza alternative edittali, perché non è graduabile equitativamente dal giudice, che non può attenuarla sulla base dei concreti, singolari e irripetibili connotati del fatto. In contrasto con un'altra classica garanzia, quella della proporzionalità delle pene, l'astratta fissità dell'ergastolo non consente, insomma, l'individualizzazione e l'adeguamento della pena alla personalità del condannato e alla specificità del caso concreto, che rappresentano una dimensione necessaria della giurisdizione penale.
Il superamento dell'ergastolo è anche un atto di civiltà imposto da ragioni di carattere etico-politico. L'ergastolo, infatti, non è assimilabile alla reclusione, ma è una pena qualitativamente diversa, assai più simile alla pena di morte. Al pari di questa, è una pena capitale, nel senso della capitis deminutio del diritto romano, in quanto è una privazione della vita futura, e non solo della libertà; e poiché è una pena eliminativa che, con l'interdizione legale, esclude per sempre una persona dal consorzio umano. Equivale, secondo la definizione che ne dette l'articolo 18 del codice francese del 1810, alla «morte civile». D'altra parte, molti Paesi europei
Commisurazione della pena.
La Commissione, preso atto delle attuali disfunzioni del modello di discrezionalità vincolata sul versante della commisurazione in concreto della pena, ha lungamente dibattuto sulle possibili soluzioni in grado di dare una risposta all'esigenza di regolamentare ex lege la questione in modo più incisivo, anche al fine di orientare il giudice, pur senza vincolarlo, verso decisioni tali da assicurare il più possibile la certezza del diritto nella commisurazione della pena.
Anche su questo tema si è tenuto conto delle soluzioni adottate dalle precedenti Commissioni e da quanto previsto in alcuni ordinamenti stranieri (ad esempio, Portogallo e Germania). L'approfondimento che ne è seguito ha confermato la difficoltà, per quanto concerne la commisurazione della pena, di realizzare forme di discrezionalità vincolata e, soprattutto, orientata a criteri finalistici indicati dal legislatore. È quindi parsa opportuna la previsione, analoga a quella del progetto Nordio, secondo cui «il giudice motiva analiticamente la determinazione della pena». Si è deciso inoltre di prevedere, oltre ai consueti indici fattuali, alcuni criteri finalistici della pena, desumibili dalle norme costituzionali (articoli 25 e 27 della Costituzione).
Il riferimento alla colpevolezza è parso doveroso, rivestendo un ruolo centrale anche in tema di commisurazione della pena, anche alla luce dell'interpretazione della Consulta (sentenza n. 364 del 1988), che lo fanno assurgere a principio guida del diritto penale moderno. Si è così stabilito - al fine di evitare pene eccedenti la misura della colpevolezza (ad esempio per esigenze di prevenzione generale o di risposta «esemplare» all'allarme sociale suscitato dal reato) - che la pena, oltre a dover essere determinata entro il limite della proporzione con il fatto commesso, deve avere in concreto finalità di prevenzione speciale, con particolare riferimento al reinserimento sociale del condannato e con esclusione, quindi, di ragioni di esemplarità punitiva.
Oblazione.
La Commissione ha ritenuto, pur in presenza di una sostanziale modifica del sistema sanzionatorio e dell'eliminazione delle contravvenzioni, di mantenere, pur con significative modifiche, l'istituto dell'oblazione la cui ratio è da ricercare anche, ma non solo, nello scopo deflattivo: permettere all'imputato/indagato di reati cosiddetti «bagatellari» di estinguere il reato, previo pagamento di una somma di denaro, parametrata alla pena massima, evitando così processi per reati di scarso disvalore sociale, con evidente vantaggio per la struttura giudiziaria oltre che per l'imputato che evita una condanna ma non va esente da «sanzione». L'attuale oblazione speciale, prevista dall'articolo 162-bis del codice penale, ha avuto un ruolo decisamente positivo assolvendo non solo finalità di carattere deflattivo ma anche di prevenzione speciale, riparatorie e risarcitorie; tale istituto, infatti, è caratterizzato dalla facoltatività dell'ammissione alla procedura e prevede, ad esempio, che siano eliminate le conseguenze dannose o pericolose del reato (il mancato adempimento di tale condizione diviene ostativo per l'ammissione all'oblazione).
Proprio per questo si è ritenuto di condizionare l'ammissione all'oblazione - possibile per i reati puniti con pena pecuniaria o con pena pecuniaria alternativa a pena di specie diversa - alla non permanenza di conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte dell'agente. Per non slegare l'ammissione al beneficio al disvalore del fatto si è lasciata al giudice la possibilità di non accogliere la domanda di oblazione in rapporto alla gravità del fatto: la genericità del dettato normativo potrebbe creare delle perplessità
Messa alla prova.
La Commissione ha ritenuto di estendere al processo per adulti, in presenza di reati puniti con pena diversa da quella detentiva e di reati per cui è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, l'istituto della «messa alla prova», che nel processo minorile ha dato risultati positivi in una percentuale, secondo stime del Ministero della giustizia, attorno all'85 per cento.
Tale istituto, peraltro contenuto anche nel disegno di legge governativo in materia di accelerazione del processo (atto Camera n. 2664), oltre a consentire di pervenire all'estinzione del reato (laddove la rinnovata sospensione condizionale della pena potrà solo estinguere quest'ultima), avrà sicuramente effetti positivi anche in termini di deflazione del carico giudiziario (articolo 46).
Poiché tale istituto si configura come una probation giudiziale con sospensione del procedimento, la sua concessione non poteva non essere ancorata alla tipologia di pena e a parametri edittali: in particolare la messa alla prova sarà possibile solo in presenza di reati puniti con pena diversa da quella detentiva o con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni. In caso di esito positivo della prova, il reato si estingue. La Commissione ha optato per non prevedere la disciplina concreta dell'istituto che, per il suo carattere fondamentalmente processuale, dovrà trovare spazio nel codice di rito.
Si è previsto, onde evitare l'eccessiva cumulabilità dei benefìci, che - se la sospensione del processo con messa alla prova sia stata concessa per reato punito con pena detentiva - un'eventuale successiva sospensione condizionale della pena non potrà mai essere concessa più di una volta.
Prescrizione del reato.
L'istituto della prescrizione - tanto del reato, quanto della pena - disciplina dal punto di vista del diritto sostanziale la difficile alternativa tra punire o non punire, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo dal fatto. Nel nostro ordinamento, con particolare riferimento alla prescrizione del reato, tale alternativa è divenuta problematica a causa di una strutturale sperequazione tra tempi disponibili per il processo penale e tempi necessari al processo. Si registra cioè una permanente incongruenza tra il tempo che la prescrizione del reato lascia a disposizione dell'attività giurisdizionale e l'estensione cronologica di alcune tipologie di procedimenti penali, caratterizzati dall'elevato numero di imputati, dalla particolare composizione del quadro probatorio o dalla complessità degli accertamenti necessari per il giudizio.
Ne è conseguito che la prescrizione ha di fatto subìto una trasformazione silente a causa del complessivo mutamento del sistema penale: da strumento eccezionale, volto a conferire implicitamente una legittimazione tecnica alla permanenza del potere punitivo statale nel tempo, a congegno continuativo di deflazione e di contenimento dell'ipertrofia penale.
La Commissione ha valutato diversi possibili assetti della disciplina in materia di prescrizione:
1) la disciplina prevista, dal 1995, nel nuovo codice penale spagnolo (articolo 132, comma 2, del codice penale), che stabilisce che tutta la durata del processo deve essere scorporata dal computo della prescrizione. Il legislatore iberico ha ritenuto contraddittorio permettere la prescrivibilità di un reato mentre è in corso un procedimento per accertare le singole responsabilità. Non si è ritenuto di aderire a questo orientamento in quanto la lentezza dei nostri procedimenti, derivanti dalla scarsità di risorse umane e materiali disponibili per la giustizia penale, addosserebbe il peso della inefficienza del sistema
2) si è poi valutata la proposta di istituire due distinti meccanismi estintivi. Il primo (prescrizione del reato) opererebbe prima dell'inizio dell'attività giurisdizionale e il secondo (prescrizione endo-processuale) regolerebbe la durata massima del processo, nel caso venisse instaurato. L'esercizio della prescrizione penale fungerebbe da causa di estinzione della prescrizione del reato e varrebbe come momento da cui computare la prescrizione dell'azione. Se il primo regime prescrizionale rimane pressoché invariato rispetto all'originaria configurazione codicistica, il secondo prevede distinti intervalli estintivi che valgono per ciascun grado del processo. Non esisterebbe un tetto massimo della prescrizione e il limite finale alla durata del processo si ricaverebbe sommando i termini valevoli per ciascun grado, termini che possono inoltre subire un allungamento in presenza di cause di sospensione, che però non possono mai dilatare i termini di oltre la metà. La Commissione non ha aderito a tale proposta in quanto, sommando i tempi della prescrizione del reato ai vari intervalli che compongono il termine temporale per la prescrizione del processo (con le relative sospensioni), si giungerebbe a termini prescrizionali cumulativi eccessivamente dilatati: ad esempio diciassette anni per le contravvenzioni punite con l'arresto e più di cinquant'anni per i delitti più gravi, stante l'operatività congiunta dei due meccanismi prescrizionali;
3) altra proposta esaminata è stata quella contenuta nel disegno di legge atto Senato n. 260 del 2001, XIV legislatura, primo firmatario il senatore Fassone. Tale disegno di legge delineava, al pari del precedente progetto, una prescrizione del reato assai simile a quella codicistica precedente alla riforma ex Cirielli e una prescrizione del procedimento e prevede un meccanismo di delimitazione temporale della prescrizione del processo penale. L'autorità giudiziaria avrebbe la facoltà di rinnovare la prescrizione tramite gli atti di cui all'articolo 160 del codice penale (cui si aggiungono l'iscrizione nel registro delle notizie di reato e le impugnazioni), ma tali atti dovrebbero succedersi a una distanza temporale non superiore ai due anni l'uno dall'altro. I rilievi che sono stati mossi a tale proposta, nel corso del dibattito, si sono incentrati essenzialmente sull'«appiattimento» del termine biennale per ogni categoria di reato (dai reati bagatellari a quelli di criminalità organizzata), che sarebbe inoltre identico per tutte le diverse fasi del processo. È inevitabile, come per il precedente progetto, lo scontro con il principio della durata ragionevole del processo, anche perché il tempo trascorso durante una delle diverse cause di sospensione della prescrizione del processo non ha alcun effetto ai fini prescrizionali.
Le riflessioni della Commissione si sono incentrate soprattutto sul fatto che una razionale riforma di tale istituto non può non tener conto dei fattori di ineffettività dell'ordinamento penale e che la scelta tra diverse opzioni non deve essere guidata da una cornice puramente valoriale: la difesa sociale versus la garanzia del reo. Il piano esclusivamente assiologico è infatti povero di contenuto informativo per il riformatore alle prese con concreti problemi di disciplina. Inoltre, a ben interpretare l'esigenza di difesa della società dal crimine, non si riscontra nessuna implicazione in ordine alla dilatazione dei termini prescrizionali. In realtà, sia la garanzia dei diritti di imputati e rei, sia l'effettiva difesa della società dall'illegalità, puntano al medesimo risultato: l'applicazione della pena in tempi ragionevoli, comunque quanto più ravvicinati nel tempo alla commissione del reato. Non si può infatti ritenere efficace un sistema che infligga la pena a così grande distanza di tempo dai fatti, tanto
1) distinta regolamentazione di due regimi prescrizionali: uno precedente all'azione penale; l'altro che interviene quando l'interesse pubblico alla punizione si sia manifestato tramite l'esercizio dell'azione penale;
2) i termini del primo tipo di meccanismo prescrizionale devono essere parametrati in funzione della gravità del reato, valutato sulla base della pena edittale, tenendo conto delle eterogenee comminatorie edittali presenti nel nostro ordinamento. Anche in questo caso la Commissione ha ritenuto a maggioranza di definire tali termini per classi (numericamente ridotte) di fattispecie, come previsto dal codice penale prima dell'attuale normativa, e non sulla base della pena edittale massima prevista per il singolo reato;
3) una volta esercitata l'azione penale, la prescrizione deve essere delineata sulla base dei tempi di accertamento richiesti dalla tipologia del processo (definiti tramite l'individuazione di limiti temporali ben definiti);
4) previsione di cause di sospensione della prescrizione cosiddetta «processuale», tra cui lo svolgimento di perizie di particolare complessità, rogatorie internazionali, impedimento dell'imputato o del difensore, dichiarazione di ricusazione eccetera. Ne consegue, ad avviso della Commissione, che la prescrizione non rientri più tra le cause di estinzione del reato ma tra le cause di procedibilità (ovvero, come è parsa orientata la Commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale, come «causa di decadenza»).
I commissari dissenzienti, in alternativa, hanno proposto una disciplina della prescrizione sostanzialmente ricalcata sul modello degli articoli 157 e seguenti del codice penale previgenti alla legge ex Cirielli, ovvero una disciplina che si basa sull'entità della pena edittale che viene aumentata in caso di atti interruttivi o sospensivi. Non sono neppure mancate proposte, anch'esse respinte dalla maggioranza, di considerare unitariamente i tempi del processo ai fini di un computo globale del termine prescrizionale.
La Commissione aveva quindi approvato, oltre a quanto previsto dall'articolo 46, la seguente direttiva:
«Prevedere che, ove esercitata l'azione penale entro i termini innanzi indicati, decorrano i seguenti ulteriori termini:
a) cinque anni per la pronuncia del dispositivo che conclude il primo grado di giudizio;
b) due anni per la pronuncia del dispositivo che conclude ogni eventuale successivo grado di giudizio.
Prevedere che:
1) i termini di cui al comma 5 siano aumentati in misura non inferiore a un terzo quando si procede in ordine a taluno dei reati di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale;
2) la prescrizione operi rispetto ad ogni singolo reato e sia rinunciabile con dichiarazione fatta dall'imputato personalmente o dal difensore munito di mandato speciale;
3) nei casi di reato tentato la prescrizione decorra dal momento in cui è cessata l'attività dell'agente; in caso di reato permanente dal momento in cui è cessata la condotta.
Prevedere che il corso della prescrizione rimanga sospeso in tutti i casi in cui la sospensione del processo sia imposta da una particolare disposizione di legge, nonché: a) nel caso di perizie il cui espletamento sia di particolare complessità e comporti la sospensione necessaria del processo per un periodo, comunque, non superiore a sei mesi; b) nei casi di rogatorie internazionali quando sia assolutamente necessario sospendere il processo; c) durante il tempo intercorrente tra il giorno della lettura del dispositivo e la scadenza dei termini per l'impugnazione; d) durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato per impedimento dell'imputato o del suo difensore, ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore ovvero a causa dell'assenza, dell'allontanamento o mancata partecipazione del difensore che renda privo di assistenza l'imputato, ovvero per effetto della dichiarazione di ricusazione del giudice o della richiesta di rimessione del processo. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione».
Ad analoga proposta è pervenuta la Commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale. Dovendosi necessariamente procedere a un coordinamento tra i testi predisposti dalle due Commissioni, si è ritenuto di mantenere nel codice penale la prescrizione del reato e di demandare al codice di rito la «prescrizione del processo per decorso dei termini» (direttiva 1.8 della Commissione presieduta dal professor Riccio).
Sospensione condizionale della pena.
I casi di estinzione della pena previsti dal progetto sono: la morte del condannato, l'indulto, la grazia, la sospensione condizionale della pena non revocata, la sospensione condizionata della pena residua, la prescrizione della pena.
Per quanto concerne l'indulto (articolo 48), si è inteso risolvere, disciplinandole espressamente, alcune questioni sorte in mancanza di indicazioni legislative. Si è così precisato che, in caso di concorso di reati, l'indulto si applichi sulla pena cumulata ai sensi delle disposizioni sul concorso di reati e, in caso di continuazione e in presenza di reati ostativi all'indulto, si applichi alla pena inflitta per i reati non ostativi.
Nel dibattito sulla sospensione condizionale della pena, la Commissione è partita dalla constatazione che tale istituto ha, e può avere, carattere polifunzionale a seconda di come è prospettato e regolamentato. In particolare, può avere un'incisiva finalità di deterrenza e di «intimidazione speciale», attraverso l'istituto della revoca; può essere un autonomo strumento alternativo alla pena, anche per evitare l'ingresso in carcere per quei soggetti non responsabili di gravi reati e per i quali vi è una prognosi favorevole; e, infine, può essere un utile ed efficace strumento sia riparatorio-risarcitorio che rieducativo, se, ad esempio, subordinato alla «messa alla prova» o a prescrizioni specifiche.
Non vi è dubbio però, come è stato autorevolmente evidenziato, che «oggi la sospensione condizionale si trova al centro di una colossale contraddizione. Con i suoi tassi di applicazione che si attestano alla metà delle condanne inflitte, essa contribuisce ad assicurare la sopravvivenza del sistema complessivo (...) ma per contro, tutti sono d'accordo nell'attribuire alla sospensione e alla prassi giudiziaria della sua concessione indiscriminata, la maggiore responsabilità delle ineffettività del sistema penale» (Francesco Palazzo, «Trasformazione o declino della sospensione condizionale della pena nel sistema penale italiano?» in Certezza o flessibilità della pena. Verso la riforma della sospensione condizionale di Francesco Palazzo e Roberto Bartoli, Giappichelli, Torino, 2007).
Sanzioni civili.
Per quanto concerne le sanzioni civili ci si è riportati al libro primo, titolo VII, del codice penale vigente, con alcune modifiche (articolo 56).
Si è previsto espressamente che il danno non patrimoniale sia determinato dal giudice in via equitativa, con motivazione espressa, tenendo conto della sofferenza cagionata dal reato e della natura dolosa o colposa di questo. Si è altresì stabilito che ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obblighi il colpevole al risarcimento, anche nel caso in cui si accerti la sussistenza della lesione di interessi legittimi (si sancisce quindi esplicitamente, anche in sede penale, la risarcibilità degli interessi legittimi). Ulteriore innovazione è rappresentata dalla previsione espressa della trasmissibilità iure proprio ai prossimi congiunti e ai conviventi more uxorio del diritto al risarcimento del danno. Si è ritenuto necessario, inoltre, disciplinare analiticamente l'ipotesi in cui il risarcimento e le restituzioni possano essere richiesti da persone giuridiche, enti o associazioni, limitando la legittimazione di tali soggetti ai soli casi in cui abbiano ricevuto un danno diretto, economicamente valutabile, e attinente alle funzioni o agli scopi da loro perseguiti.
Altra rilevante innovazione è quella prevista dalla lettera e) del comma 1 dell'articolo 56, per cui il giudice potrà, in presenza di reati di particolare natura o gravità - se non vi è stata costituzione di parte civile e la persona offesa ha espressamente rinunciato all'azione civile o non è stata identificata - disporre il risarcimento e le restituzioni, quantificando, almeno in misura parziale, la somma dovuta, che potrà essere accantonata per un certo periodo di tempo in un fondo di solidarietà a favore delle vittime del reato, salva la definitiva acquisizione da parte del fondo medesimo. La finalità di tale norma è, tra l'altro, quella di rendere possibile, con la sentenza di condanna, un obbligo risarcitorio anche quando, come ad esempio nei casi di criminalità mafiosa, la non costituzione di parte civile deriva non da una libera scelta ma da una situazione «ambientale» o da minacce o atti di violenza. Il giudice, con la sentenza di condanna, può altresì disporre l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose
Confisca.
Inizialmente la Commissione aveva previsto la confisca come pena principale. Nel corso dei lavori è però emersa la necessità di «regolamentare» autonomamente questa figura giuridica, in considerazione del ruolo che, sempre più, potrà e dovrà avere anche quale strumento di contrasto della criminalità.
L'istituto della confisca, infatti, ha attraversato, negli ultimi decenni, una fase di intenso dinamismo evolutivo, che ne ha comportato una crescente valorizzazione sul terreno delle strategie di contrasto della criminalità economica e organizzata. Recentemente la confisca ha avuto un nuovo impulso con conseguente estensione sia dei casi di obbligatorietà della confisca che dei beni confiscabili; è stata altresì eliminata o attenuata la necessità di un diretto collegamento tra beni confiscabili e reato commesso.
Una profonda trasformazione è riscontrabile già in relazione alle forme «classiche» di confisca, costruite sul modello della figura generale prevista dall'articolo 240 del codice penale. In relazione ad esse le recenti riforme legislative si sono orientate secondo quattro linee-guida:
a) la generalizzazione delle ipotesi di applicazione obbligatoria della misura patrimoniale, al fine di prevenire e di reprimere alcune fenomenologie delittuose tipicamente produttrici di arricchimento illecito (è questa la soluzione accolta negli articoli 270-bis, 322-ter e 416-bis del codice penale);
b) la sottoposizione alla confisca anche dell'«impiego» dei proventi del reato (articoli 270-bis e 416-bis del codice penale), allo scopo di contrastare la complessa canalizzazione di risorse finanziarie e la combinazione di attività economiche legali e illegali, che sono tipicamente presenti sia nel contesto della criminalità organizzata sia in quello del finanziamento del terrorismo;
c) la previsione della confisca di valore (o confisca per equivalente), e cioè avente per oggetto beni rientranti nella disponibilità del reo e aventi un valore equivalente a quelli che derivino dal reato e di cui non sia possibile l'ablazione (è questa la soluzione accolta negli articoli 322-ter, 640-quater e 644 del codice penale, che mirano a potenziare l'efficacia dell'intervento patrimoniale nel contrasto di alcune gravi forme di criminalità);
d) il perfezionamento della disciplina di tutela dei terzi che vantano diritti sulle cose confiscate.
Nell'ambito delle strategie moderne di lotta contro la criminalità organizzata, il tema delle misure patrimoniali sta assumendo una sempre maggiore centralità, che si manifesta sia nella dimensione nazionale, sia in quella europea e internazionale. Solo con strumenti in grado di incidere in profondità sulle radici economiche del crimine organizzato, e su quell'ampia rete di rapporti finanziari su cui si basano sempre di più la forza e la capacità di controllo del territorio da parte dei poteri criminali, sarà quindi possibile contrastare efficacemente organizzazioni criminali che controllano intere regioni del nostro Paese e che tendono, sempre di più, a espandere il loro potere.
Sin dall'inizio degli anni ottanta, del resto, l'intervento patrimoniale è stato considerato come uno snodo essenziale per potenziare l'efficacia dell'approccio giudiziario al fenomeno mafioso sulla base di un duplice ordine di motivazioni: la valenza dissuasiva di tipo «sostanziale» e la particolare funzionalità sul piano «processuale», in presenza di difficoltà spesso insormontabili nella raccolta delle prove.
La Commissione ha ritenuto di cercare, attraverso una regolamentazione ampia dell'istituto, di offrire una risposta a esigenze di grande rilievo, che vanno dalla creazione di un netto disincentivo alla commissione di reati (concretizzando
Responsabilità degli enti.
La Commissione è stata, fin dall'inizio dei propri lavori, concorde nel ritenere che la responsabilità degli enti dovesse essere inserita nel codice penale. Infatti, con l'entrata in vigore del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (recante disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica) l'inedita forma di responsabilità degli enti è entrata a tutti gli effetti a far parte del nostro ordinamento penale.
Pur in presenza di dubbi sulla compatibilità di una responsabilità penale o parapenale dell'ente a fronte del principio di «personalità» consacrato dall'articolo 27 della Costituzione, l'Italia non poteva sottrarsi alla direttiva prevista dall'articolo 2 della Convenzione OCSE sulla lotta alla